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LAMERICA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 dicembre 1994
 
di Gianni Amelio, con Enrico Lo Verso, Carmelo di Mazzarelli, Michele Placido (Italia, 1994)
 
"Come tutti i cineasti che ambiscono alla definizione di Autore, Gianni Amelio cambia tonalità, ma conserva il procedimento armonico: proprio come succedeva in LADRO DI BAMBINI, il suo maggior successo a tutt'oggi, è grazie ad un viaggio, ad un itinerario che da fisico si fa morale che il protagonista di LAMERICA finisce per vederci finalmente chiaro. E anche se qui interpreta un personaggio dal cinismo apparentemente opposto, la presenza del medesimo, sensibile Enrico Lo Verso sottolinea il parallelo. Il giovane carabiniere che "traduceva" i bambini verso il Meridione è diventato ora un approssimativo faccendiere: che, assieme al compare di sciacallaggio (Michele Placido) si è scelto un suo Sud. Ancora più a sud: in quell'Albania disastrata e disperata, iscritta dai telegiornali dalle Puglie nelle nostre memorie distratte. Dove acquistare, per il tradizionale tozzo di pane, la fabbrica di scarpe, da intestare all' uomo di paglia destinato a scomparire al più presto possibile. E da scegliere, di preferenza, fra i poveracci privi di compromettenti affetti e memorie, come quelli rilasciati dopo una vita passata a marcire nelle prigioni del regime comunista.

Solo che il vecchio (sorprendente, settantanovenne esordiente Carmelo di Mazzarelli) non è quello che ci si aspetta. Meno matto - e forse anche meno smemorato - del previsto: così, il giovane protagonista sarà costretto ad intraprendere un viaggio dall' allucinazione diversa. Senza RayBan e Range Rover, sempre più immerso nel paesaggio della desolazione: verso Tirana, verso il mare dei boat-people, e quell'Italia che è diventata l'America degli emigranti dell'Ottocento. Un'America, come nel titolo, senza l'apostrofo: senza la grandezza conferita dalle dimensioni, dal mito e, soprattutto, dalle illusioni.

Come in LADRO DI BAMBINI, allora, è il paesaggio, l'ambiente a scavare, a distruggere e ricostruire i personaggi. Amelio filma in cinemascope: e divora così (grazie alla larghezza, alla profondità offerta dall'ottica) non solo suoi attori professionisti: ma soprattutto brandelli di umanità, comparse dai visi corrosi dalla rassegnazione, dalla disperazione di chi stava meno peggio prima. Come in certo cinema di Kiarostami ci si sorprende a chiedersi dove finisca la realtà; da dove, e fino a quando nasca la finzione.

Ma Amelio non costruisce sull'ascetica, poverissima essenzialità del regista iraniano: piuttosto su una stilizzazione - meno intellettuale, più generosamente votata al sociale che all'esistenziale - che vagheggia quella di un Antonioni. Appoggiandosi ai toni verdastri, sapientemente crepuscolari di Luca Bigazzi (il direttore della fotografia di Soldini e di Martone) trasforma quella specie di neorealismo della prima parte in una camera dalle risonanze più astratte, immateriali, fuori dal tempo e dallo spazio.

Certo, quell'Albania a pezzi gli permette di ricostruire il dopoguerra italiano alla De Sica: ma la stilizzazione progressiva, l'invasione della musica,il panoramicare quasi fantastico sulle pietre come sui visi gli fa trasformare LAMERICA in qualcosa che non è più un film sull'Albania. Ma su una condizione, così drammaticamente attuale, di eterno ricominciamento: quella di una migrazione, di una rimessa in questione delle proprie sicurezze, che presto a tardi finisce per concernerci tutti.

LAMERICA è un film che conferma la generosità, il senso epico del sociale di Gianni Amelio: l'impegno austero senza essere pedante, altrimenti assente da gran parte del cinema italiano contemporaneo. Ma se appare meno fluido, a tratti più artificioso, certamente meno godibile del precedente LADRO DI BAMBINI è forse per il sofferto auto coinvolgimento che sembra averlo dettato. Paradossalmente. Amelio sembra firmare qui la sua opera più ambiziosa e complessa, quella destinata ad essere letta a più livelli: ma, al tempo stesso, anche la più sottolineata. Quei primi piani insistentemente dolenti di una galleria un po' accademica della sofferenza, l'incedere quasi monocorde della costruzione drammatica, il passaggio dalla visione realistica a quella simbolica avvengono sulla spinta di una sapiente riflessione cinematografica e di un rispettabilissimo ecumenismo: ma con un sospetto di laboriosità che non gli conoscevamo."


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